Per la sinistra la mafia nigeriana non esiste, è un’invenzione di Meloni. Ma “Il Fatto” mostra le sentenze che dicono il contrario

Da Il Fatto Quotidiano – Tira aria di negazionismo sulla mafia nigeriana. Bloomberg Businessweek ha pubblicato un’inchiesta secondo la quale le accuse di associazione mafiosa contestate ai membri delle confraternite, o culti, presenti in Italia siano basate su un documento artefatto: la “bibbia verde”, un testo sequestrato a Roma dalla polizia italiana nel marzo 2018, scritto come una sorta di programma criminale dei Maphite, una delle confraternite nigeriane presenti in Italia.

L’articolo è stato ripreso in copertina da Internazionaleche nella titolazione interna lo presenta così: “L’esistenza di questa mafia è stata dimostrata con un documento poco credibile”. L’articolo è firmato da Zach Campbell e Lorenzo D’Agostino. Quest’ultimo è un giornalista italiano che a fine agosto ha pubblicato una serie di tweet dal titolo “L’invenzione della mafia nigeriana” (in cui fra l’altro prendeva di mira un’inchiesta del nostro mensile FQ MillenniuM del novembre 2018).



“L’anno prima del suo ritrovamento nessun nigeriano era stato accusato in base alle leggi antimafia italiane. L’anno successivo, invece, i nigeriani processati sono stati 154”, si legge. Nella lunga inchiesta non è citato alcun singolo atto giudiziario a carico di presunti cultisti in cui si dimostri che la “bibbia verde” sia stata utilizzata come unica “pistola fumante” per mandarli in carcere.

Però si legge: “La bibbia verde è diventata il più importante documento della guerra dichiarata dal governo italiano contro le presunte organizzazioni criminali in cui sarebbero coinvolti migliaia di immigrati nigeriani. Tra queste ce ne sarebbe anche una chiamata Maphite. Per anni in Italia i funzionari delle forze dell’ordine, al stampa e i politici di destra hanno descritto la Maphite e altri gruppi simili come una sorta di cosa nostra degli anni duemila”.



Nel testo, le tesi spesso sconclusionate e xenofobe della destra oggi al governo vengono associate arbitrariamente a quelle di pubblici ministeri e stampa, come parti di un’unica campagna di diffamazione dei migranti. D’Agostino ha pubblicato i suoi tweet negazionisti sull’onda delle polemiche intorno al libro Mafia nigeriana di Giorgia MeloniAlessandro Meluzzi e Valentina Mercurio, dove la mafia c’entra poco o nulla, ma si sprecano considerazioni sugli immigrati africani come “esseri degradati e maledetti” dediti a “sacrifici umani” e così via. Il libro è del 2019, ma è riemerso nelle cronache sull’onda del caso Vannacci.

SENTENZE E PENTITI (NON INFORMATORI) – I fatti, però, dicono altro. Le inchieste e le condanne per associazione mafiosa contro decine di membri delle confraternite sono arrivate copiose ben prima della scoperta della “bibbia verde”. Anche per i Maphite, quelli che secondo Bloomberg Businesssweek “sarebbero” una delle “presunte” organizzazioni criminali nigeriane in Italia.

Il 12 gennaio 2018, dunque due mesi prima del sequestro della “bibbia verde”, il tribunale di Torino ha condannato per associazione mafiosa 21 membri dei Maphite e degli Eiye, uno dei principali culti presenti in Italia. Il 19 novembre 2020 la sentenza è diventata definitiva, confermando l’associazione mafiosa (naturalmente, senza alcun riferimento alla “bibbia verde”).

La prima condanna in tribunale per un “culto” nigeriano risale al 2009 – nove anni prima del sequestro della “bibbia verde” – quando a Brescia furono condannati in primo grado quattro membri degli Eiye. Nel 2010, ancora a Torino, toccò a 36 appartenenti ad Eiye e Black Axe. Rilevante, a questo proposito, quello che succede a Palermo, città simbolo dell’associazione mafiosa per antonomasia, dove nel 2016 vengono arrestate 17 persone: erano tutte accusate di far parte della stessa Black Axe, attiva nello storico quartiere di Ballarò.

Tra le persone finite in carcere c’è Austine Johnbull, che secondo l’articolo diventa il “primo immigrato nigeriano e componente di una confraternita a diventare un informatore della polizia“. Ma Johnbull non è un informatore, cioè una fonte di un investigatore che dietro compenso rivela notizie sotto garanzia di anonimato. La realtà è che il nigeriano è a tutti gli effetti un pentito, cioè un collaboratore di giustizia: racconta tutto quello che sa ai pm, compresi i reati che ha commesso, e sulla base delle sue dichiarazioni viene ammesso a un programma di protezione. Oggi vive in una località segreta con una nuova identità e la stessa cosa è avvenuta per i suoi familiari, che dalla Nigeria sono stati trasferiti in Italia per garantirne la sicurezza.

ASSOLTI E CONDANNATI: IL CASO PALERMO – Le dichiarazioni di Johnbull hanno portato all’apertura di due processi: il primo si è celebrato con il rito abbreviato e ha portato a 12 condanne definitive e 2 assoluzioni; il secondo con il rito ordinario si è concluso con quattro assoluzioni, mentre per un altro imputato è in corso il secondo processo d’Appello.

L’articolo di Bloomberg Businessweek si sofferma solo su queste ultime sentenze, senza sottolineare che sono state emesse per la vecchia insufficienza di prove (secondo il comma 2 dell’articolo 530 del codice di procedura penale). Spiega poi che quelle assoluzioni sono arrivate “anche perché la testimonianza di Johnbull è risultata poco credibile“. Tutto vero: i giudici del dibattimento non hanno creduto al pentito nigeriano.

Ma le dichiarazioni di Johnbull erano già state considerate genuine e affidabili dai giudici del processo celebrato con l’abbreviato perché “caratterizzate da estrema specificità” e da assenza “di intrinseche contraddizioni“. “Del resto, innumerevoli sono i richiami alle dichiarazioni di Johnbull operati delle stesse difese, che in tali casi ritengono il collaboratore pienamente attendibile“, scriveva la corte d’Assise d’Appello di Palermo nel 2020.

Come dire: pure gli avvocati degli imputati avevano ritenuto affidabile il pentito nigeriano. In quelle stesse motivazioni i magistrati ricordavano anche come la presenza a Palermo “di un’associazione di provenienza nigeriana denominata Black Axe i cui componenti hanno posto in esser gravissimi reati contro la persona avvalendosi del cosiddetto metodo mafioso” fosse già stata stabilita da una sentenza definitiva. È la vicenda relativa a un tentato omicidio a colpi di ascia compiuto da Johnbull e altri due esponenti di Black Axe.

MAFIA NIGERIANA O CRIMINALITÀ NIGERIANA? – Il lungo articolo di Campbell e D’Agostino accenna in poche, generiche righe alle condanne precedenti al ritrovamento della “bibbia verde”, mentre valorizza alcune recenti sentenze di segno opposto. Ma come hanno fatto i giudici a condannare decine di membri di culti per associazione mafiosa, fino in Cassazione, senza potersi basare sul documento che l’articolo presenta come prova fondamentale, ancorché di dubbia origine?

Quelle indagini e sentenze hanno documentato la responsabilità di membri dei culti citati in violenze, torture, traffico e spaccio di droga, tratta di esseri umani. E ne hanno sancito la “mafiosità” non in base a “bibbie” o riti di affiliazione più o meno truculenti, ma a quello che stabilisce l’articolo 416 bis del codice penale italiano: un gruppo criminale è mafioso se è in grado, col suo potere d’intimidazione, di assoggettare e condizionare la comunità di riferimento.

D’Agostino lo spiega in un box, ma sorvola sull’ultimo comma, introdotto nel 2008 e assai rilevante su questo tema, secondo il quale il 416 bis si applica anche “alle altre associazioni anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”.

Significa in soldoni che possono essere condannati per mafia anche i membri di organizzazioni assai meno strutturate e organizzate delle nostre mafie “tradizionali” (Cosa nostra‘ndranghetacamorra). Lo ha ribadito la Corte di cassazione con la sentenza 24536/2015: il 416 bis è esteso alle cosiddette “piccole mafie”, che pur non avendo il peso delle “grandi” ne mutuano il modo di agire su scala più limitata.

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