
L’8 e 9 giugno 2025, l’Italia è tornata alle urne per cinque referendum abrogativi su temi cruciali legati al lavoro e alla cittadinanza. Nonostante l’impegno di sindacati e movimenti civici, l’affluenza si è fermata al 30,6%, ben al di sotto del quorum del 50%+1 richiesto per la validità. Questo esito ha salvato le norme vigenti ma ha acceso un intenso dibattito sulla salute della democrazia diretta nel Paese.
Cosa si decideva e perché era “abrogativo”
I cinque quesiti, promossi da CGIL e associazioni come +Europa, miravano ad abrogare (cioè cancellare) parti di leggi esistenti per ripristinare normative precedenti:
- Licenziamenti illegittimi: Reintegrare l’obbligo di riassumere i dipendenti ingiustamente licenziati in aziende con >15 dipendenti, cancellando una regola del Jobs Act.
- Indennità per piccole imprese: Eliminare il tetto di 6 mensilità per i licenziamenti illegittimi in aziende <15 dipendenti, lasciando ai giudici la determinazione del risarcimento.
- Contratti a termine: Obbligare i datori a specificare una “causale” anche per contratti sotto i 12 mesi, limitando l’abuso del lavoro precario.
- Sicurezza negli appalti: Estendere la responsabilità solidale dei committenti per infortuni, anche quando causati da rischi specifici delle imprese subappaltatrici.
- Cittadinanza: Ridurre da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale per richiedere la cittadinanza italiana, allineandosi a standard europei.
Votando SÌ si optava per l’abrogazione; il NO manteneva lo status quo.
Il quorum: l’ostacolo insormontabile
La Costituzione italiana richiede la partecipazione della maggioranza assoluta degli elettori (almeno il 50% + 1) perché un referendum abrogativo sia valido, un meccanismo pensato per garantire ampio consenso ma che storicamente si è rivelato un muro invalicabile. Nel 2025, il fallimento è stato attribuito alla campagna per l’astensione lanciata dal centrodestra (Meloni, Salvini e Tajani hanno esplicitamente invitato a non votare) e alla scarsissima copertura mediatica (solo lo 0,62% dei telegiornali Rai ha discusso i quesiti). Questo episodio conferma una tendenza: negli ultimi 30 anni, solo nel 2011 (referendum su acqua pubblica e nucleare) il quorum è stato raggiunto, mentre nel 2016 (trivelle) l’affluenza fu al 31% e nel 2022 (giustizia) al 20%.
I risultati: un Paese spaccato in due
Nonostante il quorum mancato, i dati rivelano tendenze significative. Nei quattro quesiti sul lavoro, l’88% circa dei votanti ha scelto di abrogare le norme (SÌ). Sul tema cittadinanza, il SÌ ha vinto col 65%, ma il NO è arrivato al 35% (quasi il triplo degli altri referendum), indicando una maggiore divisione sull’argomento. Geograficamente, l’affluenza è stata più alta al Centro-Nord (es. Toscana 39,1%, Emilia-Romagna 38,1%) e molto bassa al Sud e isole (es. Calabria 23,8%, Sicilia 23,1%), con minimi storici in province come Bolzano (15,9%). Tra i votanti, le donne (31,5%) hanno partecipato più degli uomini (29,3%), e si è distinta l’altissima affluenza (90%) dei fuorisede che hanno richiesto il voto temporaneo, con picchi a Bologna, Padova e Torino.
Le reazioni: sconfitta o vittoria morale?
Il centrodestra ha esultato per il mancato raggiungimento del quorum. Giorgia Meloni ha parlato di “sonora bocciatura per la sinistra”, Antonio Tajani ha bollato il referendum come “assalto al governo fallito” e il sottosegretario Fazzolari ha dichiarato: “Il governo esce rafforzato”. Le opposizioni hanno invece offerto una lettura opposta. Elly Schlein (PD) ha sottolineato che “14 milioni di votanti sono più degli elettori di Meloni nel 2022”. Maurizio Landini (CGIL) ha denunciato la “crisi democratica” ma ha visto nei 14 milioni di votanti un “punto di partenza”. La proposta di riforma è immediatamente emersa: Riccardo Magi (+Europa) chiede di abolire il quorum (“È un ostacolo alla democrazia”), mentre Tajani replica proponendo di alzare l’asticella delle firme necessarie per indire i referendum. La petizione per l’abolizione del quorum, andata live solo poche ore dopo che è stato reso noto l’esito del referendum, ha già raccolto le 500.000 firme necessarie per essere trasformata in referendum. Adesso sarà necessario raggiungere il quorum per abolire il quorum.
Un futuro incerto per la democrazia diretta
Il referendum 2025 ha confermato la tendenza all’astensionismo ma ha anche acceso i riflettori su temi spesso trascurati, dalla precarietà lavorativa ai diritti degli immigrati. Mons. Perego (CEI) ha messo in guardia: “Bocciando la cittadinanza, l’Italia dice agli immigrati che non saranno mai cittadini”. Alcuni casi isolati, come i comuni di Matera (53,3%) e Nuoro (59,19%) che hanno raggiunto il quorum locale poiché il voto si incrociava con elezioni amministrative, suggeriscono una lezione per il futuro: la democrazia diretta potrebbe aver bisogno di essere abbinata a scadenze elettorali locali per non naufragare nel silenzio. Il dibattito si sposta ora sulla riforma dello strumento referendario. Con l’attuale quorum, l’Italia rischia di non cambiare mai leggi controverse senza il consenso della maggioranza assoluta degli aventi diritto. Ma i 14 milioni di Sì espressi dimostrano che esiste un’Italia viva che chiede cambiamento, anche se, in questa prova, rimasta in minoranza. Un segnale di allarme e, insieme, una speranza.