Article 3

Il cuneo fiscale nel 2025: taglio strutturale o beffa per i lavoratori?

In Italia si parla spesso di “cuneo fiscale” come se fosse un’entità astratta, una sigla tecnica riservata agli addetti ai lavori. Eppure, il cuneo fiscale è una delle variabili che più influenzano il nostro stipendio netto, e ogni sua modifica si riflette direttamente sulla busta paga di milioni di persone. Nel 2025, il governo ha annunciato una riforma che prometteva un taglio “strutturale” al cuneo. Ma cosa significa davvero? E, soprattutto, ha portato più soldi nelle tasche dei lavoratori, oppure no?

Cos’è il cuneo fiscale, e perché ci riguarda da vicino

Il cuneo fiscale rappresenta la differenza tra quanto costa un dipendente all’azienda e quanto effettivamente finisce nel suo stipendio netto. In mezzo ci sono imposte e contributi previdenziali, sia a carico del datore di lavoro che del lavoratore. L’Italia è tristemente nota per avere uno dei cunei fiscali più alti d’Europa: secondo dati OCSE, il prelievo sul lavoro dipendente può arrivare a superare il 45%. Significa che, per ogni 100 euro spesi da un’azienda per un dipendente, spesso meno di 55 euro arrivano effettivamente a lui o lei.

Ridurre il cuneo fiscale è da anni una delle promesse più ricorrenti nei programmi economici dei governi, proprio perché permette, in teoria, di aumentare il potere d’acquisto senza toccare direttamente i salari lordi o le aliquote fiscali. Ma non è così semplice come sembra.

La riforma del 2025: come funziona

Con la Legge di Bilancio 2025, l’esecutivo ha deciso di rendere permanente una misura di sgravio introdotta in precedenza a titolo temporaneo. In pratica, ha abolito l’esonero contributivo che era stato in vigore fino al 31 dicembre 2024 e l’ha sostituito con un sistema di detrazioni fiscali legate al reddito.

Per i redditi fino a 20.000 euro annui, il governo ha introdotto una sorta di “decontribuzione virtuale”: un calcolo automatico che simula un’esenzione contributiva, determinando un aumento dell’imponibile fiscale ma compensandolo con una detrazione in busta paga. Più precisamente, il beneficio parte da un massimo del 7,1% per i redditi bassi (sotto gli 8.500 euro) e decresce gradualmente fino al 4,8% per i redditi vicini ai 20.000 euro.

Per chi guadagna tra 20.001 e 32.000 euro, è stata invece introdotta una detrazione fissa di 1.000 euro lordi all’anno. Oltre i 32.000 euro – e fino a un massimo di 40.000 – questa detrazione si riduce progressivamente, azzerandosi completamente oltre quella soglia.

In pratica, è stato creato un meccanismo che tende a premiare soprattutto i lavoratori con redditi medio-bassi, ma con un sistema che si complica facilmente e rischia di penalizzare chi si trova esattamente al confine tra una fascia e l’altra.

Effetti concreti sulle buste paga

Secondo le simulazioni dell’Ufficio parlamentare di bilancio, i lavoratori con redditi inferiori ai 20.000 euro vedranno un beneficio netto variabile tra i 600 e i 960 euro all’anno, a seconda del livello di retribuzione. Chi guadagna tra 20.001 e 32.000 euro godrà invece della detrazione piena di 1.000 euro, mentre per i redditi tra 32.001 e 40.000 euro la detrazione si riduce progressivamente fino a scomparire.

In teoria, tutti dovrebbero guadagnarci. Ma c’è un però.

L’ombra del “fiscal drag”

Il punto più controverso della nuova misura riguarda quello che in gergo tecnico viene chiamato “fiscal drag”, o drenaggio fiscale. Si tratta di un fenomeno per cui l’aumento dell’imponibile – dovuto all’eliminazione dello sgravio contributivo – può spingere una parte del reddito a finire in una fascia di tassazione più alta. In altre parole, più imponibile significa anche più IRPEF da pagare.

Il paradosso, come sottolineato anche da alcuni tecnici della Commissione Bilancio, è che nel 2025 lo Stato incasserà circa 370 milioni di euro in più grazie a questo effetto. Un dato che stride con l’intenzione dichiarata della misura, ovvero quella di “lasciare più soldi in tasca ai lavoratori”. In alcuni casi, l’aumento dell’IRPEF supera il beneficio delle nuove detrazioni, portando a una beffa netta: anziché guadagnare, alcuni dipendenti potrebbero finire per perderci.

Una misura che premia il medio, ma dimentica il basso

Altra criticità sollevata riguarda la platea dei beneficiari. Se è vero che il governo ha voluto favorire chi guadagna fino a 40.000 euro, è anche vero che i lavoratori con redditi molto bassi – per esempio quelli sotto gli 8.000 euro – rischiano di ricevere un vantaggio marginale. In questa fascia, l’imposta sul reddito è già minima o nulla, e le detrazioni aggiuntive non sempre riescono a produrre un effetto visibile.

Inoltre, va sottolineato che la complessità del nuovo meccanismo rende difficile per il singolo lavoratore capire quanto davvero guadagnerà in più, e per quale motivo. Non essendo un’esenzione “visibile” come uno sgravio contributivo, la nuova detrazione si percepisce solo attraverso il conguaglio fiscale o i calcoli del datore di lavoro. Il rischio è che passi inosservata, o peggio ancora che venga interpretata come una variazione arbitraria della retribuzione.

Il bilancio: luci e ombre

Alla fine dei conti, il taglio al cuneo fiscale del 2025 non può essere giudicato solo dai numeri sulla carta. Certamente rappresenta un passo verso la strutturazione di un sistema più equo, con benefici calibrati sui redditi. Ma al tempo stesso espone alcune fragilità: la complessità tecnica, il rischio di drenaggio fiscale e l’incertezza comunicativa rischiano di trasformare una misura pensata per sostenere i lavoratori in un’operazione a saldo zero – o addirittura negativo – per alcune fasce.

La sfida, ora, sarà quella di rendere questi interventi più trasparenti, più intuitivi e, soprattutto, più efficaci nel lungo periodo. Perché tagliare il cuneo fiscale non è solo una questione di numeri, ma di fiducia. E quella, in Italia, vale quanto uno stipendio.